Quel che vi serve sapere: il Wakanda è sotto attacco delle forze armate
dell’Unione Panafricana e parecchi membri del Clan della Pantera sono
intrappolati nel Palazzo Reale circondato da un impenetrabile campo di forza.
Nel frattempo a New York il
Leopardo Nero ha fatto la sua ricomparsa.
Di
Carlo Monni
(con
tanti ringraziamenti a Carmelo Mobilia e Mickey)
Capitolo 18
Sotto attacco
Upper West Side, Manhattan, New York City.
Il nome dell’uomo era Vlad Dinu ed
ufficialmente era un imprenditore di successo immigrato dalla Romania ma era
solo una facciata per nascondere la vera fonte della sua ricchezza: Vlad Dinu
era il boss del crimine organizzato chiamato Vlad l’Impalatore e come l’antico
governatore della Valacchia e della Transilvania da cui aveva preso il
soprannome[1] era
spietato e crudele, come aveva imparato a sue spese quasi chiunque si fosse
messo sulla sua strada.
Quasi tutti perché l’uomo che gli stava di
fronte adesso faceva decisamente eccezione.
Si faceva chiamare Leopardo Nero ed indossava
un costume molto simile a quello della Pantera Nera ma più essenziale, per così
dire. Da quando era comparso per la prima volta, a Harlem in molti si erano
chiesti se i due non fossero in qualche modo collegati, del resto pantera era
un altro nome per leopardo. La risposta avrebbe sorpreso più di uno.
<E così sei vivo.> disse Vlad
ostentando calma poi si rivolse al figlio Nicolae <Pare che la tua killer
abbia fallito.>
<Forse.> replicò il suo avversario
<O forse c’è più di un Leopardo Nero e la tua killer ne ha semplicemente
ucciso uno. Sia come sia, il mio messaggio è chiaro: non ti libererai tanto
facilmente di me.>
La reazione di Vlad fu rapida quanto
inaspettata: vibrò al Leopardo Nero un pugno all’addome che lo sbilanciò
togliendogli il fiato.
Com’è possibile? Si chiese il Leopardo Nero.
Con i suoi sensi affinati avrebbe dovuto sentir arrivare quel pugno quasi prima
che Vlad muovesse la mano. Era stato più veloce di un uomo comune.
<Ti aspettavi che fossi un comune boss del
crimine capace solo di dare ordini da dietro una scrivania, non è vero?> lo
apostrofò Vlad <Beh, ti sbagliavi.>
Il Leopardo Nero riuscì a schivare un secondo
colpo e bloccò un terzo afferrando i polsi del suo nemico che cercò subito di
liberarsi. Era davvero più forte di quanto si era aspettato. Che fosse anche
lui un superumano?
Lasciò la presa improvvisamente sbilanciando
Vlad ed approfittando dell’occasione per sferrargli un paio di colpi al mento.
Vlad barcollò all’indietro ma riuscì a rimanere in piedi.
<Notevole.> commentò il Leopardo Nero
<Qualunque cosa volessi dimostrare, diciamo che l’hai dimostrata e finiamola
qui.>
<Sarà finita solo quando tu sarai
morto.> replicò Vlad <Ed anche se foste davvero più di uno, mi fermerò
solo quando sarete morti tutti.>
<Un altro giorno, forse ma non oggi.>
Fece per dirigersi verso una finestra ed al
tempo stesso Nicolae Dinu mise la mano sul calcio della pistola che portava
sotto la giacca.
<Non provarci.> lo ammonì il Leopardo
Nero <Te ne pentiresti.>
Vlad fece cenno al figlio di restare fermo e
lui, sia pure malvolentieri, obbedì.
<Perché?> gli chiese in Rumeno Nicolae
una volta che il Leopardo Nero fu sparito oltre la finestra.
<Innanzitutto perché è stupido sparare a
qualcuno proprio in questo salotto con il rischio che lo sparo sia udito
all’esterno e qualcuno chiami la Polizia.> rispose Vlad.
<I vetri sono insonorizzati e…>
<E poi quel tipo si è guadagnato il mio
rispetto. Morirà, questo è certo, ma non per un banale proiettile nella
schiena. Ora chiama quella tua Mrs. Montenegro. Ho ancora bisogno di lei.>
<Che intendi fare?> gli chiese la sua
soci, la bionda Vera Kostantin.
Vlad fece un sorriso cattivo e rispose:
<Semplicemente chiudere alcuni conti.>
Palazzo
Reale di Wakanda. Palestra.
Nella voce di M’Koni, sovrana del Wakanda e
Pantera Nera in carica, si potevano cogliere rabbia ed amarezza mentre, rivolta
all’uomo in armatura dorata davanti a lei, diceva:
<A questo, dunque, sei arrivato, George?
Perché?>
<Tu e la tua nazione non mi avete lasciato
scelta, Mary Quando ero qui ero disprezzato perché non wakandano. Anche tuo
cugino T’Challa non aveva stima di me.> rispose il suo ex marito George
Wheeler.
<Il Wakanda ti ha costretto a giocare
indebitandoti fino al collo? Io ti ho in qualche modo incoraggiato a tradirmi?
Sia io che T’Challa ti abbiamo offerto una seconda occasione e tu l’hai
sprecata.>
<Non parlarmi così!>
<E come dovrei parlarti? Non solo mi hai tradito ma ora ti sei messo
con i nemici del mio paese. Cosa intendi fare adesso? Uccidermi? Ucciderai la
madre di tuo figlio?>
Wheeler non rispose e tese il braccio destro.
Giardini
del Palazzo Reale.
Lo scenario non era dei migliori. Guidata da
una misteriosa donna inguainata in un attillato costume blu che le lasciava
scoperto solo il viso una squadra delle forze d’assalto della Federazione
Panafricana era riuscita a superare le difese del Palazzo Reale e stava tenendo
sotto mira S’Yan, membro della famiglia reale, e la Regina Vedova Ramonda.
Quando tutto sembrava senza speranza,
all’improvviso era balzato giù da un albero un uomo vestito di una variante del
costume della Pantera Nera che gli lasciava scoperta la parte inferiore del
volto ornato da una corta barba ed aveva afferrato la sconosciuta per un polso.
<Khanata!> esclamò Ramonda
riconoscendolo.
La sua avversaria lo fissò e disse:
<Sì: sei proprio il Principe Khanata ma
Askari avrebbe dovuto occuparsi di te.>
<Ha fallito, proprio come accadrà a
te.> replicò Khanata.
<Non è ancora detto.> ribattè l’altra.
Con una rapida mossa si divincolò e si
allontanò di qualche metro.
<Suppongo che ora dovremmo batterci e
stabilire in un leale combattimento chi di noi due è il migliore e merita di
vincere.> disse <Peccato che non andrà così. Se non ti arrendi immediatamente, darò ordine di uccidere S’Yan e
la Regina. Per quanto tu possa essere in gamba, da solo non potrai fermarli
tutti.>
In quel momento si udì un sibilo ed una
lancia si conficcò nella schiena di uno dei soldati trapassandolo letteralmente
da parte a parte. Subito dopo una freccia ne abbatté un altro.
Khanata sorrise e replicò:
<Chi ha detto che sono solo?>
Harlem, Manhattan, New York City.
Seduto ad uno dei tavoli dell’Harlem Club Abe
Brown sorseggiava un drink mentre sul palco Monica Lynne stava finendo di
cantare “Georgia on my mind”. Abe accennò un sorriso.
<Tutto solo stasera, bell’uomo?>
A parlare era stata una donna afroamericana
molto attraente che poteva avere una qualunque età tra i trenta ed i quarant’anni
ed indossava un abito scuro aderente e senza maniche che le arrivava appena
sopra il ginocchio.
<Mi piace questo posto, Mrs. Toomey.>
rispose Abe.
<Tanto da venire fin dal Bronx?>
ribattè Shauna Toomey sedendosi davanti a lui senza aspettare inviti.
<Come ho detto, mi piace questo posto. È
elegante ma non troppo, il barman sa fare degli ottimi drink e poi posso
ascoltare della buona musica dal vivo.>
<E da quanto ho capito, sei… diciamo… un
estimatore della nostra cantante.>
Proprio in quel momento Monica attaccò una
sua versione di “My man” nell’arrangiamento di Billie Holliday.
<È brava.> si limitò a commentare Abe.
<È molto di più. Sarebbe stato uno spreco
del suo talento se fosse diventata la regina del Wakanda. Ma a te interessa
forse in un altro senso?>
<E se anche fosse, perché dovrebbe
interessare lei, Mrs. Toomey?>
<Chiamami Shauna. Se vuoi proprio saperlo,
ho sempre avuto un debole per i tipi come te: duri come l’acciaio all’esterno
ma con il cuore tenero.>
<E tuo marito sa di questa tua predilezione?
Cosa ne pensa?>
<John è troppo occupato dai suoi affari
per occuparsi di come passo il mio tempo. Anche adesso è fuori proprio per uno
degli affari di cui ti dicevo.>
John James Toomey non era solo il gestore del
club, era il secondo in comando di Boss Morgan, il signore del crimine di
Harlem. Abe lo sapeva bene ed era certo che qualunque affare stesse trattando
in questo momento, era quasi certamente qualcosa di poco pulito.
Manhattan,
New York.
Il rumore del suo atterraggio sul tettuccio
dell’auto non era stato praticamente avvertito all’interno e l’agile ragazza di
colore dal succinto costume rosso con una mascherina domino a coprire parte del
volto sorrise. Ora si trattava solo di restare salda sul tettuccio ed
aspettare.
L’attesa non fu troppo lunga. L’auto imboccò
l’ingresso di un piccolo aeroporto privato che indubbiamente doveva servire a
Boss Morgan per i suoi loschi traffici o, come in questo caso, per far uscire
qualcuno dagli Stati Uniti clandestinamente.
A quel punto fu inevitabile che la donna di
nome Okoye fosse notata dal personale di servizio.
Senza perdere tempo la ragazza balzò
agilmente dal tettuccio e stese uno degli uomini armati davanti a lei con un
calcio alla mascella.
Mentre stava per toccare terra sentì un click
inequivocabile alle sue spalle e si abbassò. Il primo proiettile le passò sopra
la testa e colpì in pieno petto uno degli uomini davanti a lei, gli altri
andarono semplicemente a vuoto.
A sparare erano stati l’autista della
limousine ed un africano di grossa stazza che Okoye riconobbe come Jerik, la
guardia del corpo di Bridget Hapanmyas, il suo
bersaglio.
Nella mano destra di Okoye apparve quasi come
per magia un pugnale che lei lanciò con maestria cogliendo l’autista alla gola.
Prima che potesse rialzarsi, però, Jerik le
fu addosso e le strinse la gola.
<Ti ucciderò!> le disse in Swahili.[2]
Sede
del Wakanda Design Group, poco fuori i confini della capitale.
Ishanta era uno dei membri più anziani ancora
in vita della Famiglia Reale del Wakanda. Ai suoi tempi era stato un uomo d’azione,
perfino una delle Pantere Sostitute, ma quei tempi erano passati: aveva messo
su pancia e doveva usare gli occhiali, non aveva, però, perso lo spirito.
Quando le squadre delle truppe speciali della
Federazione panafricana guidate da Raoul Bushman in persona invasero il
complesso industriale di cui era a capo lo trovarono ad attenderli seduto alla
sua scrivania.
<Bushman, vecchio bastardo, vedo che non
ti hanno ancora ammazzato.> disse.
<Vedo che non ci sono
riusciti nemmeno con te, vecchio idiota.> ribattè Bushman con un sorriso
cattivo reso ancor più inquietante dal tatuaggio a forma di teschio che gli
ricopriva il volto.
<Trent’anni fa non avresti osato parlarmi
così.>
<Non esserne troppo sicuro, vecchio. Ora
lasciati legare senza opporre un’inutile resistenza. Questa fabbrica ora è
sotto il controllo della Federazione Panafricana come presto lo sarà tutto il
Wakanda.>
<Non ne sarei così sicuro al posto
tuo.>
Ishanta premette un pulsante sulla scrivania
che fu subito circondata da una barriera rilucente.
<Ma cosa…?> esclamò Bushman.
Fu la volta di Ishanta di sorridere mentre
replicava:
<Un comune campo di forza elaborato dai
miei ingegneri… i migliori del mondo.>
Bushman ed i suoi soldati spararono ma i
proiettili si infransero sul campo di forza. Ishanta continuò:
<Ho anche avviato un meccanismo di
autodistruzione. Tu e le tue truppe avete meno di 15 minuti per allontanarvi
prima che tutto esploda. Addio Bushman.>
La sezione di pavimento sotto la poltrona di
Ishanta cominciò a scendere rivelandosi come una sorta di ascensore.
Bushman non perse tempo. Sapeva bene che i
membri del Clan della Pantera non facevano mai minacce a vuoto.
<Usciamo di qui, presto!> ordinò.
Poco meno di 15 minuti dopo l’intero
complesso esplose.
Harlem,
New York City.
Il Leopardo Nero raggiunse furtivamente la
finestra che dava nella camera da letto dell’appartamento dell’assistente
sociale Thomas Chalmers e vi entrò non visto.
Una volta dentro si tolse la maschera
rivelando il volto di T’Challa, ex re del Wakanda ufficialmente defunto ma che
aveva in realtà iniziato una nuova vita proprio con l’identità di Thomas
Chalmers oltre che come Leopardo Nero.
Doveva ammettere con se stesso di trovare
stimolante lavorare per il bene della povera gente oltre che come supereroe
urbano.
Si chiese cosa ne pensasse Okoye. Omoro, il
capo dei servizi di sicurezza del Wakanda, l’aveva mandata a New York per
tenerlo d’occhio, come se lui avesse veramente bisogno di un angelo custode. In
fondo il vecchio Omoro era un sentimentale. Il pensiero strappò a T’Challa un
sorriso.
Quanto ad Okoye, T’Challa aveva la sensazione
che cominciasse anche lei a prenderci gusto a recitare il doppio ruolo di
impiegata in un centro di assistenza per donne maltrattate di giorno e
vigilante mascherata di notte anche
se quasi certamente non lo avrebbe mai ammesso.
Chissà dov’era in questo momento? In cerca di
guai o più probabilmente a procurarli a qualcun altro.
Un
piccolo aeroporto privato a Manhattan, New York.
Jerik incombeva su di lei come una montagna
umana di grasso e muscoli. Ancora un po’ e le avrebbe spezzato la trachea.
Okoye sapeva di non dover perdere tempo. Non tentò neppure di spezzare la
stretta. Era fin troppo consapevole di non poterci riuscire, invece usò il
taglio di entrambe le mani per colpire il suo avversario in un punto vicino
alle orecchie che dal suo addestramento come Dora Milaje sapeva essere molto
sensibile. Jerik gridò e istintivamente si portò le mani alle orecchie. Okoye
ne approfittò per sferrargli una ginocchiata all’inguine e lui non poté che piegarsi in posizione fetale dal dolore, un
successivo calcio al mento lo spedì nel mondo dei sogni.
Okoye si avvicinò al cadavere dell’autista
per recuperare il pugnale ancora conficcato nella sua gola quando si udì una
voce maschile:
<Bello spettacolo, ma ora vogliamo vedere
se sei più veloce di un proiettile?>
John James Toomey era sceso dalla limousine
ed ora le stava puntando contro la sua pistola.
In
volo verso Wakanda.
C’era un solo modo per definire quello che
stava provando Shuri in quel momento: un misto di rabbia e frustrazione.
La più giovane dei figli del defunto Re
T’Chaka era di ritorno da Lycopolis, la città dei lupi mannari, capitale
dell’autoproclamato Stato Autonomo di Arcadia dove si era recata come inviata
personale di sua cugina M’Koni[3] quando
era stata raggiunta dalle notizie dell’invasione. Tutti i tentativi di mettersi
in contatto con il Wakanda erano falliti: c’era un blackout delle comunicazioni
opera sicuramente del nemico.
Dopo una breve riflessione, decise che c’era
una cosa che poteva fare.
Sul display del suo telefono di ultima
generazione apparve un volto deturpato da cicatrici simili a scaglie. L’occhio
sinistro era coperto da qualcosa che assomigliava al monocolo dei gioiellieri.
<Dottor Crocodile…> iniziò a dire
Shuri.
<Preferisco essere chiamato Presidente
N’Dingi o anche Dottor N’Dingi ma vista la tua giovane età e la tua…
impetuosità, perdonerò la tua scortesia, Shuri.> replicò Joshua N’Dingi,
Presidente della Federazione Panafricana.
<Non siamo qui per discutere di etichetta,
tu hai invaso il Wakanda.>
<Una misura spiacevole ma necessaria.
Dovevo agire prima che il tuo paese decidesse di intervenire al fianco dei miei
nemici.>
<I nostri alleati che tu hai
proditoriamente attaccato, ma con il Wakanda ti romperai i denti. Noi non ci
arrenderemo mai e tu fallirai come chiunque altro che ha provato a
conquistarci.>
<Questo è da vedersi. Intanto ti consiglio
di guardare fuori dal finestrino. I miei caccia hanno circondato il tuo aereo.
Se non ti arrendi, lo ridurranno in cenere.>
Shuri serrò le labbra reprimendo un insulto.
Palestra
del Palazzo Reale di Wakanda.
Quello che si stava svolgendo in quel momento
era un dramma familiare. Decisamente atipico.
Nella mente di George Wheeler passarono
rapidamente immagini della vita felice con sua moglie e suo figlio seguite da
quelle dei suoi fallimenti come marito, come padre e come uomo. La
determinazione che lo aveva sostenuto fino ad allora cominciò a vacillare.
Avrebbe mai più potuto guardare negli occhi suo figlio se davvero gli avesse
ucciso la madre?
Esitò e questo fu sufficiente a M’Koni per
fare la sua mossa. Con un balzo acrobatico si gettò verso l’alto. Le sue gambe
si strinsero a forbice al collo dell’uomo che aveva amato in quella che ormai
le sembrava un’altra vita e lo trascinò al suolo. Non era un’esperta
combattente come alcuni dei suoi cugini ma in quell’ambiente ristretto era lei
ad avere il vantaggio ed era decisa ad approfittarne.
Mentre Wheeler faticava a rimettersi in piedi,
lei si era già rialzata ed aveva applicato all’armatura quello che sembrava
solo uno dei tanti ornamenti della sua cintura.
Ma cosa…?> esclamò Wheeler.
<Un regalino di T’Challa.> spiegò
M’Koni <Sta spegnendo uno dopo l’altro i sistemi della tua armatura
iniziando da quelli offensivi per finire con quelli di supporto vitale. Una
difesa nel caso di furto di un’armatura da parte di qualcuno come te.>
L’armatura si aprì di scatto e l’uomo
all’interno cominciò ad uscirne.
<Non ho bisogno di nessuna armatura per
sistemarti.> disse <Sono più grosso, più forte e più allenato di te.>
M’Koni non rispose ma socchiuse gli occhi.
Aeroporto
internazionale di Birmin Zana, capitale del Wakanda.
Patrick McKenna era decisamente frustrato.
Aveva aspettato troppo per lasciare il Wakanda ed ora non era più possibile: il
paese era sotto attacco e tutti i voli erano stati cancellati. Certo,
esistevano altri modi per lasciare quella zona, strade clandestine che lui, da
scafato contrabbandiere qual era, conosceva bene ed allora perché non aveva
ancora provato ad usarle? Era riluttante ad ammetterlo ma forse c’entravano i
begli occhi, per tacere del resto, di Jane Mahoney. Che stupidaggine, si disse,
la ragazza aveva meno della metà dei suoi anni.
Le sue riflessioni furono interrotte
dall’arrivo di una ragazza in sahariana verde e calzoncini. In testa aveva un
cappello a larghe tese e gli occhi erano nascosti da occhiali da sole.
<Ma guarda un po’ chi c’è!> esclamò la
ragazza <Patrick McKenna, uno dei più famigerati trafficanti d’armi di tutta
l’Africa subsahariana.>
<Ci conosciamo, Miss…> chiese,
perplesso, McKenna.
<Kitty Walker, corrispondente dell’United
Press ed altre agenzie giornalistiche per quest’angolo di mondo.>
<Walker? Il nome non mi è nuovo. Ho
conosciuto un Kit Walker diversi anni fa ma era un uomo.>
<Mio padre probabilmente ma non parliamo
di questo. Sono più interessata a sapere cosa ci fa lei qui proprio in questo
momento. Non mi risulta che il Wakanda abbia bisogno di gente come lei per
rifornirsi di armi.>
<Premesso che io sono solo un onesto
mediatore, potrei risponderle, Miss Walker, che non sono affari suoi.>
Prima che la ragazza potesse replicare,
l’attenzione di entrambi fu attratta da rumori provenienti dall’alto.
Alzarono gli occhi e videro un jet che stava
piombando a tutta velocità verso una delle piste d’atterraggio inseguito da
aerei più piccoli che lo stavano bersagliando di colpi apparentemente senza
molta fortuna.
<Ma che…?> esclamò McKenna.
Il jet riuscì ad eseguire un atterraggio
d’emergenza non troppo distante da loro, abbastanza da poter distinguere le
insegne di un volo di stato del Wakanda. Gli inseguitori, dal canto loro,
avevano le insegne dell’aviazione militare panafricana.
<Questa sì che è una notizia che
interesserebbe la sua agenzia, Miss Walker.> disse McKenna.
Si accorse, però, che la ragazza era
scomparsa.
Si chiese dove potesse essere finita, poi si
diresse verso l’aereo. Nonostante il botto che aveva fatto era abbastanza
intatto ma anche i suoi inseguitori stavano atterrando decisi a finire il
lavoro.
Il buonsenso suggeriva di starsene lontani,
ma McKenna decise comunque di andare a vedere. Che stesse sviluppando una
coscienza? Il pensiero lo fece sorridere.
Palazzo
Reale del Wakanda.
La ragazza vestita di nero si chiamava Nakia,
ma dopo essere stata espulsa dai ranghi delle Dora Milaje per aver tentato di
uccidere Monica Lynne in un impeto di gelosia[4] aveva
assunto il nome di battaglia di Malizia ed era diventata una mercenaria al
servizio del miglior offerente. Quando Raoul Bushman le offrì di entrare nella
sua squadra speciale della Federazione Panafricana non aveva esitato ad
accettare. Azione, avventura, una paga molto buona e la possibilità di
vendicarsi del Wakanda che le aveva voltato le spalle: cosa poteva chiedere di
più?
Alla fine era arrivata in Wakanda ed aveva
dimostrato alle sue ex compagne che era più in gamba di loro, inaspettatamente,
però, era stata M’Koni a sconfiggerla e questo le bruciava. Avrebbe ritrovato
M’Koni, l’avrebbe sfidata di nuovo e stavolta l’avrebbe uccisa.
Le sue fantasticherie furono interrotte da
una voce irosa alle sue spalle:
<Dove credi di andare, traditrice?
Malizia si voltò e si trovò di fronte, Ayo,
attuale leader delle Dora Milaje. Anche lei si era ripresa ed era decisamente
arrabbiata.
<Qualunque cosa tu voglia fare, io te la
impedirò.> proclamò.
Nakia fece un sospiro e ribatté:
<In nome della nostra antica amicizia, ti
chiedo di non provarci. Non ho alcun desiderio di ucciderti, non costringermi a
farlo.>
<Tranquilla, non lo farai, sarò io ad
uccidere te.>
Senza aggiungere altro Ayo si scagliò contro
Nakia brandendo la sua lancia con entrambe le mani.
Birmin
Zana, fuori dal Palazzo Reale.
W’Kabi era sempre stato un uomo d’azione e
l’attuale situazione non era certo adatta a migliorare il suo umore già
abbastanza cupo di suo.
<Possibile che non riusciamo ad abbattere
questo dannato campo di forza?> esclamò per l’ennesima volta.
<I nostri tecnici ci stanno lavorando e
prima o poi ci riusciranno.> gli rispose il Primo Ministro Taku.
<Me lo ho già detto un quarto d’ora
fa.>
<E te lo ripeterò tra un altro quarto
d’ora se necessario. L’impazienza non ci porta a nulla.>
<Se lo dici tu. I nostri nemici ci hanno
preso nel momento più vulnerabile, dopo la crisi del Leone Nero e non solo si
sono infiltrati nella nostra capitale senza che ce ne accorgessimo ma hanno
anche isolato il Palazzo Reale ed interrotto le comunicazioni. Le nostre forze
armate, di cui io sono il capo, sono isolate e senza ordini.>
<Il tuo pessimismo mi sorprende sempre, vecchio
amico. Dimentichi che prima di diventare Primo Ministro sono stato Ministro
delle Comunicazioni? Avevo previsto un’eventualità simile e preparato una
contromisura. Prepara i tuoi ordini, W’Kabi. I nostri avversari stanno per
avere una brutta sorpresa.>
Upper
West Side, Manhattan, New York City.
Vlad Dinu entrò nella sua lussuosa villa in
arenaria e chiamò:
<Angela! Gabe! Sono tornato!>
<La signora ed il bambino non sono qui,
signore.> gli disse il maggiordomo.
<Non sono qui? E dove sono?>
<Mi dispiace, Signore, ma non lo so. Poche
ore dopo il suo… ehm… arresto… la signora ha riempito un paio di valigie, ha
chiamato un taxi e se n’è andata con il Signorino Gabe.>
Vlad rimase silenzioso ma il suo sguardo
diceva molte cose.
Quella stupida troia aveva osato abbandonarlo
portandosi dietro suo figlio… suo figlio.
Nessuno poteva fare uno sgarbo simile a Vlad
l’Impalatore senza subire la sua vendetta. Angela lo avrebbe capito presto,
CONTINUA
NOTE
DELL’AUTORE
Poco da dire, tutto sommato. Se
qualcuno di voi, miei scarsi lettori si sta facendo domande su Kitty Walker,
potrebbe avere risposte nel prossimo episodio in cui molti nodi verranno al
pettine.
Carlo
Walker, potrebbe avere risposte nel prossimo episodio in cui molti nodi verranno al pettine.